Sculture come minime sensazioni della materia
Parlare di sculture per le recenti opere di Albano Morandi significa confrontarsi con la sottile costruzione dell’oggetto, con un mondo di forme che non tentano mai la grande misura ma si identificano in minime sensazioni della materia. L’artista giunge al discorso plastico direttamente dalla pittura, il senso della sua ricerca non condivide le tensioni e i modi di fare della scultura tradizionale anche se non rinuncia al piacere di manipolare vari materiali, unificando le loro differenti qualità in un’unica sostanza.
A ben guardare, ogni oggetto costruito da Albano Morandi è un microrganismo dotato di antenne che captano il vuoto e lo portano all’interno della forma, un vuoto che si nutre degli umori della materia e permette all’osservatore di sentirne il peso e la durata.
Cosi’ come nel passato, quando il pittore trasformava carte e cartoni in supporti dalle magiche trasparenze, oggi lo scultore tratta le materie come sostanze che nascondono in sé il principio di creazione, sostanze mutevoli che viaggiano sul filo della fantasia desiderando di essere ogni volta diverse, segnali di un mondo arcano che si svela strada facendo, senza premeditazione.
Ciò che Albano Morandi calcola, semmai, è la disposizione vagante degli oggetti nello spazio, la loro combinazione che può assumere un impatto diverso, a seconda dello spazio espositivo e delle caratteristiche ambientali che accolgono il loro insieme.
Scultura come sistema di oggetti, dunque: osserviamo queste forme precarie che dalla purezza del bianco lasciano emergere i sapori della terra, mescolando la luce alle zone adombrate, il chiarore del pensiero agli oscuri presagi dell’inconscio. Il loro aspetto arcaico le avvicina a forme archetipiche che hanno fatto breccia nel cuore dell’artista, ne sono il fondamento interiore e il prolungamento fisico nello spazio.
Una tensione verticale si impadronisce della forma come desiderio di accorpare l’aria intorno al nucleo generativo della materia, fragile e precaria, eppure solida presenza che dialoga con il resto, cresce sui sentieri del vuoto, ne attiva la percezione.
C’è un “rituale” nel modo di realizzare queste opere che della scultura sono eco ed evocazione, si tratta di un’invenzione che trasforma gli oggetti d’uso con una tecnica personalissima che li rende carichi di meraviglia, simboli di un mistero laico che l’arte coltiva come interna ossessione.
Nelle installazioni realizzate con questi procedimenti Albano Morandi persegue spostamenti linguistici e congiunzioni di forme che giocano sul limite dell’assurdo o, per meglio dire, sul paradosso della breve misura che spazia nell’ambiente con l’ambizione di suggerire sconfinamenti e sensazioni d’infinito.
“Questo nuovo modo di rivolgersi al mondo con uno sguardo straniante e privo delle sovrastrutture che la nostra cultura ci ha imposto è stato l’unico filo rosso che ha attraversato i vari momenti del mio lavoro, a partire dai primi anni ottanta ad oggi”.
L’artista indica una possibilità di collegare le carte del passato, sensibili e pervase di inquietudine, con la preziosità delle scatole, stratificate di cera e segni di matita, fino agli oggetti attuali che possono far pensare a frammenti di colonne o a creature immaginarie che vivono tra di noi, senza saperlo.
Tuttavia, non c’è filo che non corra il rischio di tornare su se stesso e il percorso di Albano Morandi preferisce la circolarità, la compresenza delle varie fasi di ricerca che costruiscono un’unica grande zona immaginativa in cui visioni anche lontane nel tempo riescono a stare insieme, attratte dalle medesime tensioni.
Se confrontiamo le forme che aleggiavano negli acquerelli dei primi anni novanta e le strutture di un’opera recente come Salomè non possiamo non riconoscervi una straordinaria continuità di vibrazioni e di palpiti, di tensioni e di allusioni che perennemente dialogano tra presenza e assenza, tra vuoto e pieno, tra fisicità e virtualità dell’immagine.
Nel contempo, non possiamo non riconoscere nelle piccole opere fatte con stucco e grafite tra il 1991 e il 1992 un sorprendente preludio a ciò che l’artista sta ancora creando nel segno della scultura, nel sogno di una materia che respira l’inconfondibile verità del primordio, del primo soffio, dell’alito che solleva la forma dal suo stato di inerzia e ne fa un’irripetibile invenzione.
Movendosi con innato senso di equilibrio tra il sentimento della geometria e l’impulso dell’informe, tra misure costruttive e dilatazioni improvvise del nucleo materico Albano Morandi raccoglie intorno alle singole opere molteplici suggestioni e, soprattutto, il senso della forma che dal visibile passa al non conosciuto, aprendo sempre ulteriori varchi davanti a sé.
Per quanto l’artista intenda nutrirsi di citazioni e di frequentazioni con la storia dei linguaggi artistici del passato la sua verità sta nel presente e nell’implicazione del quotidiano, vale a dire nella dimensione estetica delle forme che si accumulano, giorno dopo giorno, come un laboratorio di segni vissuti che fluttuano tra il senso del relitto a quello della reliquia, passando dal rumore del mondo alla purificazione della visione, dalla vita all’estetica.