VIAGGIO NELLA REGIONE DELL’EVIDENZA EVIDENTE

VIAGGIO NELLA REGIONE DELL’EVIDENZA EVIDENTE

Meccaniche della Meraviglia

presenta

“Viaggio nella regione dell’evidenza evidente.

 

Venti anni di Albano Morandi tra le Meccaniche della Meraviglia”

 

Conferenza stampa: martedì, 5 settembre ore 14.15
Opening: giovedì, 7 settembre 2023 ore 21.30
Palazzo Averoldi, Contrada di Santa Croce, 38.

 

Con opere e installazioni di Albano Morandi in dialogo con gli archivi della manifestazione e le composizioni musicali di Luca Formentini, nella cornice di Palazzo Averoldi a Brescia.

 

A cura di Ilaria Bignotti e Camilla Remondina, con un intervento di Paolo Bolpagni

 

 

Opening 7 settembre – 1° ottobre 2023

IL PARTITO PRESO DELLE COSE

La reazione al Gigantismo dell’arte di fine millennio, gigantismo per un mercato che preferisce le “opere grandi” alle “grandi opere”, verso la metà degli anni ’90, mi porta a realizzare una serie di lavori minimi, della dimensione della mia mano.

Opere che giornalmente produco con i materiali che il mondo mi mette a disposizione: stoffe lise e logore, vecchie cornici, lavagnette, quaderni ritrovati, scatole vuote in legno o in cartone di qualunque forma, con materiali sempre rigorosamente recuperati, e che come un collezionista raccolgo, conservo, e rielaboro portandoli a “vita nuova”.

Nascono i “Gesti Quotidiani” che ancora oggi accompagnano il mio lavoro artistico. Voglio dare, a chi guarda, la possibilità di vedere, meravigliandosi, oggetti riconoscibili perché parte del quotidiano di ogni individuo ma sotto una veste nuova. Come giustamente ha scritto un mio vecchio amico, voglio usare “il mondo delle forme per trasfigurare il modo delle cose”.

La scoperta del libro di Francis Ponge “Il Partito Preso delle Cose” è per me come un’epifania. Una raccolta di poesie che assume spavaldamente il punto di vista parziale a favore delle cose contro la visione stereotipata del genere umano fa proprio al caso mio e dunque prendo in prestito questo titolo per una serie di installazioni di cui quella che presentiamo oggi fa parte a pieno titolo.

Meraviglia come modo per approfondire la conoscenza delle cose, per entrare nel loro intimo, vedere il loro senso e non il significato.

In mostra ho inserito alcune opere che negli anni hanno partecipato alle varie edizioni di Meccaniche della Meraviglia poi donatemi dagli artisti:

  • la Sfera di Vladimir Skoda esposta alla Fondazione Cominelli a San Felice del Benaco nella prima edizione;
  • L’installazione fotografica di Lucio Pozzi realizzata all’interno dell’ex fabbrica di reti da pesca a Marone sul Lago d’Iseo nella sesta edizione;
  • I due bicchieri con calcare “Archi di dama” di Giovanni Oberti esposti all’Ateneo di Brescia nella quattordicesima edizione;
  • L’opera di Angelo Pretolani della serie “Sotto il selciato c’è la spiaggia” esposta a Palazzo Bargnani a Brescia nella sedicesima edizione;
  • La fotografia della serie “Filò” che Valentina Vannicola ha realizzato lo scorso anno con la collaborazione degli abitanti di San Felice del Benaco.

(Albano Morandi)

La scena del mistero.

Albano Morandi per il Ventennale di Meccaniche della Meraviglia

Una grande sala fiocamente illuminata, adorna di volte affrescate.

Vi si adagia, al centro, un’onda scultorea, un’installazione ambientale che la attraversa e invade, fatta di oggetti dalle temperature oscure: due vasche da bagno con i piedi che poggiano a terra, due portacatini in metallo forgiato, due specchi antichi, dalle forme curvilinee, neri.

Le due vasche ospitano centinaia di piccoli oggetti, presenze bianche e gessose, contenitori diventati contenuti: vasi, bottiglie, piccoli oggetti quotidiani resi candidi come fantasmi in ammollo.

Due bobine industriali, con i segni dell’usura e del lavoro, sono tavoli circolari che ospitano indizi di opere d’arte come enigmi in bella vista.

Pietre nodose fanno da sostegno organico all’intera sfilata di presenze evidenti. Lo aveva insegnato Edgar Allan Poe: bisogna mettere in luce una cosa da nascondere.

Nessuno la troverà.

Albano Morandi è maestro di questa grande lezione; il suo lavoro, delicato e persistente, eclettico e coerente, lavora su quella latenza evidente che dà anche il senso, e il ritmo, a una manifestazione artistica diffusa, ormai giunta a vent’anni di esistenza, quale “Meccaniche della Meraviglia”: la sua grande lezione di plastica sociale, per dirla con un altro padre spirituale dell’artista e regista culturale salodiano, Joseph Beuys, la sua – e così di tutti – messa in scena dell’arte contemporanea nei luoghi solitamente inaccessibili o negati al pubblico.

Questo il senso ultimo, e anche il primo motore, che da due decenni attiva il progetto, al quale oggi Morandi vuole rendere il debito omaggio con la sua opera a Palazzo Averoldi, dopo aver condotto “Meccaniche della Meraviglia” senza mai troppo esporsi nei panni di artista, ma di direttore dell’orchestra, offrendo così a decine di esponenti delle ricerche visive della contemporaneità di mettere in gioco e in dialogo il loro linguaggio con luoghi incantevoli.

Si diceva, in apertura, che nella grande sala è allora in scena Il partito preso delle cose: la grande installazione site-specific contiene le Forme del vuoto, decine e decine, anzi centinaia di oggetti plastici in gesso ottenuti per calco dall’artista, incuriosito dalla loro forma, dalle loro esistenze piccole, quotidiane, forse invisibili agli occhi della maggior parte delle persone.

Dopotutto, quello di Morandi, anche attraverso “Meccaniche delle Meraviglie”, è un “viaggio nella ragione dell’evidenza evidente”, un viaggio come un viatico e un labirinto che, come insegna un terzo maestro ben presente nell’indagine morandiana, Jorge Luis Borges, possiamo percorrere ogni volta diversamente, per specchiarci alla fine del tragitto in noi stessi, diversi, sempre in mutamento: sempre uguali al nostro divenire. Se fosse dipinta, questa grande installazione sarebbe un fondale perfetto per Jacques-Louis David: vi si potrebbe ambientare un nuovo Marat.

Pochi elementi scenici, consunti dal tempo, con le due vasche che contengono mute presenze, a raccontare un fatto – la loro vita – altrove avvenuto. In effetti, quello che l’artista ogni volta sa compiere è un delitto linguistico che sottintende una grande, drammatica presa di coscienza: l’arte è risultato di un insieme di parole, di immagini, di atti di vita più o meno evidenti, di pensieri e desideri, fratture e silenzi più o meno latenti.

Tutti siamo intrecciati nel grande teatro che Morandi ha sempre amato calcare, sin dalle sue prime esperienze accademiche, allievo di Toti Scialoja.

Questa mostra è allora un modo per ricordare: giunto al centro, alla mia chiave, all’algebra, al mio specchio.

Presto saprò chi sono. L’elogio dell’ombra di borgesiana scrittura si riverbera visualmente negli specchi al nero, si opacizza tra le forme gessose, si srotola lungo le opere di altri artisti – poche, preziose presenze che Morandi sceglie di porre in dialogo con la sua installazione – e giunge nella piccola sala accanto al grande ambiente centrale, dove torna Les Chant de la mi-mort, opera del 2015-2016: un’antologia di ritratti di numi tutelari trovati, poggianti su cavalletti da orchestra, esplicito omaggio di Morandi ad Alberto Savinio e a quello che fu un suo primo testo, messo in musica e scritto a Parigi, in cui descriveva una figura senza volto.

Le icone dell’artista salodiano, che campeggiano come spartiti di una memoria affettiva, sono punteggiate di piccole cromie vivaci, tracce di un presente che riattiva il passato, in un riconoscimento-svelamento che diventa, anche, atto di appropriazione di una storia che l’artista – ogni artista – scrive per poter leggere la propria opera.

Negli altri ambienti, Morandi ha voluto squadernare i ricordi: sono gli album fotografici delle edizioni di “Meccaniche della Meraviglia”, riproposti con attenzione meticolosa su basi che paiono giacigli dove ridestare il passato, o fare assopire il futuro, per ricordarsi dove si è oggi.

E poi i cataloghi, gli inviti, appunti di una storia dell’arte nella storia dell’arte: una storia che nasce dal desiderio di un uomo, di un artista, e che sa diventare di tutti. In quelle vasche accoglienti, eppure così perturbanti, Albano Morandi del resto ha adagiato i calchi in gesso di piccoli oggetti quotidiani: perché la rivoluzione siamo noi, lo diceva Joseph Beuys.

Senza mai alzare la voce, “Meccaniche della Meraviglia” la sua rivoluzione continua a farla: dissennata come i sogni, mette in scena l’inatteso che tutti noi possiamo, in fondo e nel profondo, sapere di desiderare.

Questa mostra, scaturita dall’artefice della manifestazione, lo dice perfettamente.