
Manifesto per un Dadaismo ludico-lirico alla Galleria Victoria Art Center Bucarest,
Inaugurazione: giovedì 20 aprile 2017
Sede espositiva: Galleria Victoria Art Center Bucarest, Calea Victoriei, 12C.
Periodo espositivo: da giovedì 20 aprile a 20 maggio 2017
Orari della Galleria: da martedì a venerdì dalle ore 15,00 alle 19,00 e sabato dalle 11,00 alle 15,00
Albano Morandi.
A proposito di Depero
Nicoletta Boschiero
Fortunato Depero
Colori 1915-1916
Sintesi teatrale astratta
Quando nell’aprile 1916 Fortunato Depero pubblica la sintesi futurista Colori, ne “Gli avvenimenti”, rinnova il proprio credo futurista ispirandosi al manifesto Il Teatro futurista sintetico del 1915, firmato da Filippo Tommaso Marinetti, Emilio Settimelli e Bruno Corra, che stabiliva le nuove regole dell’evento teatrale futurista.
I firmatari sono intenzionati, per creare opere teatrali nuove:
a rinunciare ad ispirarsi ai maestri del passato perché ormai troppo distanti dal dinamismo contemporaneo e ad abolire la drammaturgia convenzionale grazie a pièces in cui l’assenza di trama e sintassi a favore del verso libero è totale.
Il nuovo genere teatrale rappresenta così la sintesi di tutto ciò che i futuristi pretendono: velocità ma rigore espressivo, impiego di discipline diverse e allontanamento dalla formalità ingessata dei testi ottocenteschi, disinvolto intreccio tra differenti strati sociali, uso della parola libera, rumori.
I protagonisti nella sintesi deperiana sono i colori – quattro individualità astratte – nero, grigio, bianco e rosso e ognuno ha un proprio equivalente parolibero, una propria partitura declamata sul palcoscenico. Ogni colore ha una voce timbrica differente: il nero gutturale e profonda, il grigio mugolante, il bianco tagliente e infine il rosso strepitante e fracassante.
Probabilmente Colori non fu mai rappresentata, sebbene Depero dia precise indicazioni scenografiche: la stanza vuota è “cubo azzurra” e i colori sono “individualità astratte” mosse da fili invisibili, in una anticipazione dei Balli plastici. Questo primo lavoro teatrale dell’artista, capace di stupire in quanto rivoluzionario, è indubbiamente moderno, veloce, anti-lirico, ma rimane un unicum, non è mai stato un modello da imitare, forse a causa della sua estrema stilizzazione.
Albano Morandi
Colori, 2015
47 gouaches fissate con la cera, cm. …. cad
Attraverso Colori, una suite di 47 fogli, Albano Morandi rende omaggio a Depero e al tempo glorioso in cui tutto ha avuto inizio.
Morandi sceglie come supporto per il suo lavoro le pagine di un libro dei conti proveniente da una drogheria degli anni trenta. La scelta del registro allude ad un’ operazione metalinguistica: l’artista si ritrova “a fare i conti” con Depero, un artista lontano cronologicamente ma ancor oggi interessante perché innovativo e sperimentale, che già all’inizio del secolo scorso ambiva alla pura astrazione.
Se ci spingessimo a cercare le testimonianze della sintesi teatrale deperiana a cui Morandi si è ispirato lo faremmo invano: i colori versati e mischiati sui fogli non sono più entità cromatiche distinte con una loro propria voce, perché l’oblio ha inghiottito la loro esistenza. Ci fu un tempo passato in cui vissero ed ebbero una spiccatissima personalità: erano personaggi che interpretavano un ruolo su un palcoscenico.
Morandi attraverso il registro del droghiere (ne strappa le pagine e nel contempo lo strappa all’indifferenza, all’inutilità di un oggetto di ieri affidato al tempo odierno) fa di conto, conteggia, enumera. Valuta come un economo entrate e uscite, analizza, dopo attenta valutazione, le difficoltà e si rende conto in definitiva che, in ogni caso, agisce per conto di Depero, in nome di Depero, per incarico di Depero tenendolo in estrema considerazione e stima seppur consapevole della distanza che lo separa dall’artista antenato.
Se Morandi calcola, prevede, preventiva attraverso la metafora del libro mastro, prende coscienza, si dà una ragione, tiene conto dell’opera di partenza, la studia, la tratta con cura, ne custodisce il pensiero, è parimenti consapevole di un salto temporale enorme: qui e ora i colori non sono più solitari, univoci, eloquenti, sono invece totalmente indistinguibili, si offrono a noi che guardiamo, in una colata lavica, ci portano lontano nel tempo e, seppur evocativi, non ci riconducono mai pedissequamente a Depero, piuttosto se ne separano attraverso il tempo trascorso, la lettura critica, la distanza dell’esperienza vissuta. I fragili fogli non recitano, non sono sostenuti e movimentati con rumori rombanti o melodiosi, concitati brusii, rimbombi di motori.
Le pagine recuperate e ricomposte “ripetono” il fervore archivistico di Depero che raccoglieva, ricopiava, trasferiva compulsivamente da un documento all’altro, nell’ansia di confermare la propria creatività, di comprendere e prendere coscienza della propria storia. L’atto di conservare e ordinare nei suoi cosiddetti “libroni” la memoria volatile e spezzettata di ritagli, recensioni, foto e schizzi ha consentito la raccolta di un patrimonio inestimabile. Albano Morandi reitera nella propria opera quella inclinazione, ricoprendo le mere pagine contabili di colori. La pirotecnica commistione della pittura, ottenuta grazie al suo spargimento direttamente sul foglio, permette la relazione tra i colori e li fa diventare altro da loro.
Le operazioni (matematiche?) realizzate da Morandi sono dunque tre:
fare i conti con l’artista “padre”,
connotare una attitudine archivistica, tipica di Depero e utilizzandola come base, sostegno del proprio lavoro
e infine riflettere sul tempo che passa, che mischia, che sovrappone, che stratifica.
Nello spazio della galleria Milano di Carla Pellegrini, il racconto dell’artista dà a chi guarda le coordinate per non perdersi del tutto, propone un repertorio di immagini casuali ma che racchiudono le vere ragioni di una rimessa in gioco del ricordo: parlano a chi sa ascoltare. Ogni singolo foglio, apparentemente uguale al suo vicino in realtà conserva una sua propria identità e, a seconda del suo “abbinamento”, si trasforma in progetto di volta in volta nuovo.
Il registro sfascicolato diventa racconto, la sua presenza può decidere l’andamento della narrazione, a seconda degli accostamenti dei fogli.
Non c’è dichiarazione, determinazione, presa di posizione in Morandi: c’è lo scorrere della vita, la memoria diventa una sorta di inventario, un catalogo delle possibilità a testimonianza della sua capacità di cogliere la grande energia e valore nelle idee di Depero.
Albano Morandi diventa dunque l’ avveduto testimone che si muove nella direzione a lui più pertinente, capta un segnale attraverso le labili tracce che non si sono potute dimenticare o che non si possono cancellare e lo reinterpreta, lo sostiene con un procedimento paradossale che unisce l’attività conservativa d’archivio –la catalogazione- con quella più audacemente sperimentale – versare il colore- che “accende” ogni singolo foglio.
ALBANO MORANDI.
LA PORTA DELLA MEMORIA
di Giovanna dalla Chiesa
Tutto il lavoro di Albano Morandi poggia sulla ‘relazione’ .
E non esiste relazione che si manifesti in un assoluto presente, ma solo tra un passato preesistente, un presente che lo intercetta e un futuro che si
anticipa. Spostamenti nell’Invisibile, così definirei i passaggi compiuti da Morandi nell’elaborazione dell’opera, perché tra ogni prelievo di reperti e l’altro c’è un vuoto, pari a quello che si frappone e che separa ogni operazione di taglio e di collage, che deve poi essere suturato e ri-incollato, per venir riproposto.
Tra l’individuazione di un oggetto, di un materiale, di un’immagine fotografica e la loro riutilizzazione può passare un tempo anche lungo, un tempo di assorbimento e di analisi, poi di ricongiunzione e ricollegamento con il proprio vissuto, come succede dinanzi a indicazioni disparate che ci hanno colpito e sorpresi in flagrante delitto di esistenza, che dobbiamo riordinare se vogliamo consegnarle poi a nuova finalità.
Non c’è da stupirsi, dunque, se il Suono, che esiste al di là del Visibile, è l’elemento prescelto per colmare le distanze e le separazioni – senza dover disturbare forme, materiali e immagini che esistono alla luce del giorno – sottolineando, al contrario, indirettamente, la loro presenza di magiche apparizioni, dal vuoto e dal silenzio della lontananza.
Proprio il suono riempie lo spazio che il prelievo ha interrotto e ricostruisce un ponte energetico, una tessitura fra le cose. Il suono ha la stessa funzione di fluidificazione e manipolazione delle immagini che la pittura possiede al massimo grado, essa non compie mai strappi, infatti, nella ‘persistente continuità del non-essere’, (1) da cui, per esistere, forme e figure devono essere estratte, ma le alleva, al contrario, in una continuità di pensiero, di emozioni e fattura.
La strada di Albano Morandi è stata subito lontana dal felice battaglione, testardamente votato al recupero della pittura in cui molti dei suoi stessi compagni di studi si arruolarono proprio negli anni in cui più forte agiva il suo richiamo, ovvero al tempo delle sue prime mostre (1981-1984), si è invece immediatamente orientata verso il richiamo del mondo con le sue occasioni dispensate a piene mani dai segreti ripostigli della Storia, e dal suo immenso marché aux puces a cielo aperto.
Lì, la pratica dell’accostamento fra diversità, lo ‘spaesamento’ alla De Chirico, lo scarto fra materiali e immagini distanti che scatenano la scintilla del ‘meraviglioso’, potevano essere praticate a tutto campo, secondo l’indicazione
di Pierre Reverdy, cara a Breton: “L’immagine è una creazione pura dello spirito, non può nascere da un paragone, ma dall’accostamento di due realtà più o meno distanti. Più i rapporti fra le due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte – e più grande sarà la sua potenza emotiva e la sua realtà poetica” (2). Questo ha consentito a Morandi di giocare subito sullo spartito di una molteplicità di fattori, messi ogni volta a disposizione di uno sguardo ampio e parabolico, tendente alla ‘curvatura dell’anima’, come a quella del globo e del cosmo, che proprio in quegli anni iniziano a prender posto nella percezione e nelle coscienze, attraverso la rete.
Credo che in questo variegato processo di combinazioni e nelle peripezie dell’immaginario di Albano Morandi si sbaglierebbe a non vedere lo ‘spazio circolare dell’anima’, il dato sotterraneo di una ricerca che tace accuratamente i propri segreti e dà a vedere solo la parte di superficie del discorso, che nel suo retro nasconde, però, altri significati e intenzioni, in gran parte ancora da svelare.
Proprio nello scenario della mostra Immagini rubate a memoria appaiono, in modo più che mai esplicito, ora, sia il tema della Memoria, abitualmente frequentato da Morandi, che quello della Morte e di Ade, un riferimento senza sottintesi, a far da cassa di risonanza a un sostrato psichico che si estende non solo in ampiezza, ma affonda in profondità.
In una giornata di agosto, il rinvio di un appuntamento nei pressi del Cimitero Monumentale di Milano, è l’occasione per una visita da cui sono nati gli scatti fotografici che, rimaneggiati con oro e adesivi, hanno dato luogo ai 25 ritratti di anonimi di Les Chants de la Mi-Mort – una rivisitazione dei temi musicali e letterari omonimi di Alberto Savinio.
Questo corpus inedito, magicamente scolpito nell’assenza a cui dà voce l’istallazione sonora di Luca Formentini, si confronta con il ciclo Colori, dedicato all’opera di Teatro Sintetico di Fortunato Depero e composto da 43 brani già presentati a Bologna nel 2009, che gronda, invece, e distilla umori interiori con l’espandersi di gocce di colore lasciate cadere sul supporto, sino a segnarlo come un reliquiario che nel fisico ritrova il mistico e il metafisico, toccando l’apice di attimi di verità intimi e sofferti.
La terza parte ha come interlocutori compagni di strada puramente mentali, o viceversa frequentati dal vivo, che appartengono a generazioni diverse, viventi, oppure estinti, indifferentemente, ma scelti preferibilmente tra irregolari di spicco, come Lucio Pozzi, Blinky Palermo, Tomas Rajlich e Renato Ranaldi il cui merito è di averne ‘costellato’ e impregnato l’animo, a costituire un continuum temporale – nulla si crea nulla si distrugge tutto si
trasforma – dovuto a infiniti passaggi e spunti mutuati dall’uno e dall’altro in reciproche linee di frequenza.
Per questo tipo di ‘relazione’ Morandi adotta il termine Memetica, a partire dal termine inglese meme, utilizzato in internet per indicare un’idea, uno stile o un’azione che si propaga per imitazione come una sorta di contagio e che diviene fonte di un’evoluzione culturale. Il meme si comporta in modo analogo al gene della genetica, ma opera per via di puro mimetismo.
Lo stato di dormiveglia indicato da Alberto Savinio e Giorgio De Chirico come ‘mezza-morte’, o capacità estatico-metafisica per cogliere dimensioni non altrimenti percepibili in condizioni di normalità diurna, è quella di un galleggiamento simile alla trance, al sonnambulismo, agli stati modificati di coscienza, ottenuti attraverso l’alcol e le droghe, che riesce a dilatare la percezione e a conquistare l’unità di passato, presente e futuro con un effetto di annullamento del tempo che si trasforma in chiaroveggenza e facoltà profetica.
La struttura di internet è come una rete nervosa globale, ma costruita da chilometri e chilometri di cavi sottomarini e sotterranei, che imitano quelli delle nostre reti neuronali.
George Steiner ha illustrato egregiamente in Grammatiche della creazione, come in Occidente, la terra del tramonto,‘non abbiamo più inizi’ (3).
L’origine ci è stata rubata per sempre, cloni, duplicati, repliche c’impediscono ormai di riconoscere le fonti, l’originale. L’unica possibilità è allora tornare agli archetipi che sono iscritti, ancora – sino a quando una mutazione genetica non ci trasformerà, forse definitivamente – nel nostro DNA.
Quello che in questa ultima fase di una triade che definirei ‘sapienziale’, Morandi sembra voler compiere è un pareggiamento dei conti, fra debiti e crediti. Un annullamento del culto della personalità, a profitto di un Sé sommerso, dove l’Io è stato definitivamente decapitato.
Un ‘acephale’ alla Georges Bataille che in questa fase, dopo i diversi passaggi da un piano ontologico all’altro, come nei riti che accompagnano la morte o nei processi di separazione e riaggregazione caratteristici dell’alchimia, opta per l’unificazione di tutti i saperi.
Una Symphonie Monotone alla Yves Klein che attraversa passato-presente- futuro o una reductio ad unum che ha il compito di verificare la possibilità del superamento di ogni confine, con un costante passaggio tra le soglie e un bilanciamento tra le funzioni di Oblio (Lete) e Mnemosine (Memoria), venendo a costruire, a mano a mano, insensibilmente, una nuova tessitura per raccogliere le stanche membra del Mondo. Una sapienza arcaica che chiede di proiettarsi nel futuro.
Dialoghi di memoria
Elena Di Raddo
Il volto gentile di una giovane fanciulla cinquecentesca affiora come un’apparizione dal fondo nero di un dipinto del Moretto, la testa circondata da un arcobaleno colorato, nelle mani un collage di materie colorate che stridono con la vetustà dell’opera originale riportandoci al tempo presente e alla pratica inconfondibile di Albano Morandi. In modo simile in un’altra opera due triangoli in legno e specchio, opera di Blinky Palermo, sono collocati su uno sfondo geometrico creato con strisce nere cerate, mentre al centro campeggia un triangolo di fiori secchi. In entrambe le opere Albano crea un cortocircuito tra presente e passato, usando materiali molto diversi, e, soprattutto, servendosi delle opere prese a prestito come picture, immagini cioè che hanno perso il valore originario. Il gioco messo in atto dall’artista in questa nuova serie di opere è lavorare attorno a un motivo, che è quello, tutt’altro che innocuo, dell’opera d’arte realizzata da altri artisti: un pittore del Cinquecento, Blinki Palermo, appunto, ma anche Tomas Rajlich, Vincenzo Cecchini, Lucio Pozzi, Renato Ranaldi.
Prendendo a prestito una categoria di Nicolas Bourriaud, le opere per così dire “dialoganti”, di Albano Morandi potrebbero essere definite di “postproduzione”, in quanto si confrontano con lavori preesistenti o con immagini di opere del passato. In realtà il confronto è complicato da rapporti personali e da storie vissute, dalla memoria, appunto, che è un aspetto costante del suo lavoro. Contraddicendo l’avvertimento di Valdimir Nabokov che nel suo piccolo romanzo Cose trasparenti avvertiva i suoi lettori dal lasciarsi sprofondare nella storia degli oggetti che possono far cadere chi vi si incombe nella sua storia, l’artista non solo ambisce proprio a cadere nella trappola degli oggetti, ma si fa portatore lui stesso con i suoi materiali spesso recuperati di ulteriori storie e memorie. Le sue opere infatti sono caratterizzate da una sedimentazione di carte, tessuti e colore che coprono la superficie della tela e degli oggetti, conferendo loro un aspetto nuovo, significati che sembrano affiorare sotto l’effetto di una patina di memoria. Per raggiungere questo risultato egli utilizza tessuti recuperati da vecchi rivestimenti di materassi, strisce di nastro adesivo, frammenti di fiori esiccati.
Anche in questi nuovi lavori l’intervento di Albano Morandi è per sovrapposizione in quanto trasferisce sulla creatività altrui una superficie sottile di vissuto e di esperienziale. La composizione monocroma di Tomas Rajlich, artista ascrivibile all’ambito della pittura analitica e pertanto autore di dipinti rigorosamente improntati sul valore di testimonianza dell’atto artistico, viene accostata a un reticolo di nastro adesivo bianco su un fondo oro, dove prevale invece l’aspetto costruttivo del fare. Al senso tattile che la pittura di Rajlic esprime nella superficie pastosa, Morandi aggiunge una sua interpretazione della materia pittorica, che non è mai limitata al solo pigmento, ma si arricchisce di sovrapposizioni materiche, come, appunto, avviene qui attraverso l’uso dello scotch steso sul colore.
In forma di dittico è anche il confronto con Vincenzo Cecchini: alla pittura–traccia nella parte sinistra del quadro, Albano accosta una composizione con tessuto sul quale sembra visualizzarsi la stessa forma-traccia presente nell’opera di Cecchini. Il dialogo è serrato e perfettamente integrato, dall’accostamento delle due opere è nata una sola opera che supera entrambe. Questo risultato si raggiunge anche nel confronto con Lucio Pozzi, la cui pittura estremamente vivace nei colori e costruita con strutture geometriche aperte ha invitato Albano ad aprirsi al cerchio, creando una griglia serrata all’interno di una forma che potrebbe continuare a espandersi all’infinito. Ciò che si rivela nell’opera è una sorta di mistero, che non ha una forma, ma è pura apparizione. Con Renato Ranaldi, infine, il confronto assume un valore più concettuale: lasciando l’iniziativa all’artista fiorentino il dipinto di Albano Morandi entra a far parte della sua poetica di “bilico”. Collegato alla tela grezza da un filo d’ottone il piccolo dipinto, in apparente posizione precaria, si presenta come un prolungamento nello spazio: una dimensione fisica, ma allo stesso tempo mentale perché allude alla costruzione di un pensiero più “allargato”, nato, appunto dal confronto tra due individui, due personalità artistiche, due mondi fino a un momento prima del gesto artistico paralleli. In tale opera, come in tutte quelle presenti nella mostra la poetica che sottende l’operazione artistica nasce dallo slittamento del significato originario di un’opera/oggetto finito. Il limite tra il pensiero di un artista e quello dell’altro nel confronto serrato si perde dando luogo a un significato ulteriore, un prolungamento, appunto della condizione originaria dell’opera.
Molte opere di Albano Morandi sono pensate per installare il dubbio, far emergere ciò che normalmente non si vede: forme indefinite tra il geometrico e l’organico, colori tenui che sussurrano, tonalità prevalentemente calde, aiutano ad alludere, suggerire, far intravedere. Accanto alle opere che dialogano con altri artisti, egli espone anche lavori che dialogano con se stesso, con opere precedenti o con forme desunte da altri lavori. Si scopre quindi che il dialogo in questa mostra non è solo con l’opera d’arte degli amici artisti, ma con la sottile emozione prelevata dalla memoria inconscia di oggetti e forme già vissute.